Fanno la riforma della scuola (pardon, i tagli) e il sud paga il dazio. Cambiano il sistema di fiscalizzazione, e giù con la riduzione degli stipendi a chi lavora nel mezzogiorno. Se questa è Italia unita, qualcuno deve aver sbagliato a fare i conti. E anche a votare, se è per questo.
E' storia di questi giorni la preparazione del piano programmatico per il rilancio della scuola pubblica messo a punto dal ministro dell'istruzione, Maria Stella Gelmini, a braccetto con il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. In previsione c'è il taglio, in tre anni, di 87mila posti di lavoro nel settore scolastico.
Chi lo paga il prezzo?
Semplice, i 14mila insegnanti più o meno precari. Quelli che, per diventare professori, hanno svolto il loro bravo percorso universitario e post universitario, con tanto di master per la preparazione all'insegnamento, tirocinio in aula, e migliaia di euro di spesa. Adesso il ministero gli stringe la mano, ringrazia per il contributo economico, e manda tutti a casa. Solo in Sicilia e Campania saranno 4.000 gli esuberi, tra i 14.000 previsti in tutto lo stivale. Sempre per la regola della par condicio.
Poi c'è il limite alla percentuale di stranieri che possono accedere all'istruzione pubblica (non oltre il 30%), il divieto assoluto per gli insegnanti di fare politica in aula (come ai tempi del fascismo, quando dovevi giurare fedeltà al partito o andavi a casa). Però l'ora di religione (cattolico-cristiana) non si tocca, la valutazione in quella materia farà media con tutti gli altri voti e i suoi insegnanti saranno dipendenti pubblici pagati con i soldi dello stato anche se non accedono alla carica con nessun concorso e anzi vengono designati direttamente dal vescovo di competenza territoriale.
Evvia l'Italia.
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